Mohábbat (sull'Iran)

  • Teatro Nido dell'Aquila
  • Mercoledì 30 Agosto | Ore 19:00
  • 5,00 €
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MOHÁBBAT è una parola persiana che significa “affetto, cura” e che Afshin Varjavandi identifica come fulcro della cultura da cui proviene, quella persiana, fino a rappresentare lo spirito della gente dell’Iran.

Da questo fulcro parte l’indagine condotta dal coreografo e dai danzatori, che insieme diventano il simbolo di una “famiglia”, una delle tante, fuggite dal loro paese di origine, alla ricerca di nuove speranze e di “un orizzonte” libero, infinito, vitale, privo della negazione della vita stessa. L’Iran oggi è conosciuto come luogo di atrocità e di negazione dei diritti umani, ma sono 44 anni che in Iran, come in molti altri paesi della Terra, vengono istituzionalmente proibiti credi, diritti di espressione, di uguaglianza di genere, il progresso e l’emancipazione delle donne, l’uguaglianza degli esseri umani.

Ma qual è il prezzo che si paga quando si abbandona la propria terra di origine? Quali sensazioni si provano nell’iniziare un viaggio senza ritorno, costretti a lasciare per sempre la propria casa, alla ricerca di una nuova casa?

MOHÁBBAT è un racconto libero e senza una cronologia definita, una sorta di ‘flusso di coscienza’, di brain-storming, che si avvale di ricordi personali, episodi, telefonate familiari tra parenti distanti, mescolati a molteplici immagini e riferimenti drammaturgici: dagli scatti fotografici di Gianni Berengo Gardin, fotografo che molto spesso ha ritratto il volto dei profughi, degli emigranti e dei viaggiatori (cfr. Emigranti alla Stazione Centrale, Milano 1971), ai dolci versi in stile ‘haiku’ del regista persiano Kiarostami, maestro del cinema della malinconia e dell’esistenza (cfr. Il vento e la foglia).

Traendo spunto dal poeta persiano Sohrāb Sepehri (cfr. Un’oasi nell’attimo), che fin dall’infanzia fu rapito dal soffio del Mistero, da una “luce interiore”, che a lui pareva provenire da una stanza di colore azzurro nascosta dietro agli alberi di casa, i danzatori di MOHÁBBAT costruiscono in una danza eclettica, mista, fusione di gesto contemporaneo, movement research e tecnica urban, uno spazio sacro immaginario, una fortezza, o un rifugio, dove non esiste alcun tipo di prevaricazione e di crudeltà e nel quale, con affetto, invitano il pubblico ad “entrare”.

Un atto, un gesto che invita a una riflessione semplice: se ogni essere umano mettesse tra le proprie priorità quella di avere cura degli altri, nessuno rimarrebbe privo di quella cura di cui noi tutti, umani con virtu’ e debolezze, siamo bisognosi.

“A volte, nel mezzo di un gioco, la stanza azzurra mi chiamava. Mi separavo dai compagni, mae ne andavo per stare al centro di essa, e per ascoltare: sentivo qualcosa dentro di me, come un suono d’acqua che si ode in sogno. Un flusso scaturito dall’alba delle cose mi trapassava e mi toccava dentro. Non erano i miei occhi che vedevano, ma il mio vuoto interiore, e vedeva delle immagini. Raggiungevo la leggerezza di una piuma, e nel mio intimo a poco a poco salivo, mentre una presenza piano piano prendeva il mio posto; una presenza come un soffio di luce.”

Sohrāb Sepehri

  • Produzione Astràgali Teatro, La MaMa Umbria, La MaMa etc. experimental Theater NY
  • con INC | innprogress collective, Jenny Mattaioli, Alessandro Marconcini, Chiara Morelli, Elia Pangaro
  • Coreofrafie e Regia di Afshin Varjavandi
  • Sound Design: Francesco Fiorucci Chiskee, Dromo Studio, Jacopo Cerolini
  • Foto: Paolo Panfili
  • Costumi: Afshin Varjavandi, Sara Lanzi
  • con il contributo di CentroDanza spazio performativo Perugia